Social e libertà di espressione: c’è il limite?

by Feb 5, 2021I Podcast di Digital Jam, Interviste & Webinar

I Social Network, a cosa servono oggi? Domanda complessa, difficile e forse un po’ provocatoria, se consideriamo che alla fine dell’anno appena concluso, (e non un anno facilissimo!) i social hanno superato per la prima volta i 4 miliardi di utenti – 4,14  miliardi nell’ottobre 2020 per essere esatti. 

Ciò significa che due terzi della popolazione mondiale utilizza un cellulare, e 3 persone su 5 utilizzano internet (il 90% da mobile).

Questo nuovo incremento, fortificato dalle restrizioni attuate dai singoli paesi, ha avuto un impatto molto forte restituendo ai social non solo un ruolo sociale ma anche politico, con il braccio di ferro che ha visto Cina e Stati Uniti scontrarsi con Tik Tok.

Il punto però che rimane più dibattuto, anche per via degli avvenimenti di Capitol Hill, è: qual è il tone of voice da usare su queste piattaforme e, soprattutto, sui social media la libertà di espressione deve avere un limite?

Abbiamo parlato di questo nell’ultima puntata di Digital Jam, i podcast di Chorally, con informazioni su innovazione, AI, customer engagement e social, con un ospite d’eccezione Marco Borraccino, Social Media Strategist – e attualmente Community Manager nel team marketing italiano di Allergan Aesthetics, società AbbVie e leader mondiale nel settore della medicina estetica – ma soprattutto autore del seguitissimo blog Social Recap.

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Social media ai tempi della pandemia

Il 2020 ha restituito ampio protagonismo ai social network, ma superata la prima fase di emergenza oggi a cosa servono?

I social network servono a moltissime cose. Agli utenti i social servono per relazionarsi e per connettersi con altre persone. Alle aziende servono per comunicare, interagire e costruire relazioni con le persone della propria community. E, non ultimo, alle aziende i social servono per vendere i prodotti. Per tutti, sono degli enormi strumenti di reputazione. 

…e ai personaggi pubblici o alle amministrazioni a cosa servono?

Riguardo ai personaggi pubblici possiamo dire innanzitutto questo: in molti casi pensano di utilizzare i social al meglio ma non è così. Basti pensare ad esempio alle pagine Facebook dei nostri politici: sono del tutto prive di risposte ai commenti delle persone. Eppure aprire un account sui social dovrebbe servire innanzitutto a comunicare e a relazionarsi con la propria community, senza filtri e in modo efficace. Anche nella Pubblica Amministrazione i social network devono e possono essere usati per comunicare in modo diretto con il pubblico e per fare “relazione digitale”. Ovvero quello che una volta era compito dell’Urp – Ufficio Relazioni col Pubblico. Il punto è che ora su questi canali la comunicazione dev’essere bidirezionale. Per cui se ricevi una serie di commenti e di reazioni è necessario (e doveroso) rispondere. Se invece si vuole continuare a comunicare dall’alto verso il basso, è meglio comprare una pagina di giornale.  

“Manca la cultura dei social media

Eppure queste osservazioni non sono nuove… Allora cos’è che non funziona e perché ci ritroviamo sempre allo stesso punto?

Manca la cultura dei social media: purtroppo le aziende non hanno capito cosa sono questi ambienti né hanno capito cosa comporti strategicamente starci dentro. In più, è in atto un cambiamento che sta portando i social network a diventare piattaforme di messaggistica, anche per effetto di una progressiva alfabetizzazione degli utenti, che, meno propensi rispetto a 7 o 8 anni fa a condividere e mettere online qualsiasi cosa, oggi privilegiano le conservazioni private.

Questo era un trend già attivo da un anno, ma la pandemia cosa ha cambiato?

La pandemia ci ha obbligato a cambiare la nostra routine, perché di fatto ha limitato drasticamente tutto ciò che avveniva nello spazio fisico. Questo chiaramente ha avuto un effetto diretto sulla vendita di prodotti, sull’ecommerce e sulla presenza sui social media. Da marzo 2020 c’è stata una frequentazione molto più vasta e molto più assidua delle piattaforme: Tik Tok è stata l’app più scaricata durante la pandemia. Instagram, già diffusissima e molto usata, si è attestata in seconda posizioneper i download dell’app e ora raggiunge 29 milioni di italiani. Tutto l’ecosistema Facebook ha 36 milioni di utenti in Italia.

Instagram è ormai un social media che fa parte della nostra quotidianità, con un pubblico trasversale che varia dai 20, 30 ai 50 anni, con una frequenza quotidiana alta. Certamente questa enorme diffusione della nostra vita digitale avrà degli effetti anche sul mondo post-pandemico. Sicuramente continueremo a conciliare online e offline, dando maggiore risalto rispetto al passato all’online, ma anche con un livello sempre più alto di alfabetizzazione. Gli utenti saranno sempre più consapevoli che stare sui social implicherà tutta una serie di comportamenti e attenzioni.

libertà di espressione social

La consapevolezza degli utenti è un punto di riflessione molto interessante, anche in virtù del blocco dei profili social di Trump. Jack Dorsey ha detto “anche se ci sono eccezioni chiare ed evidenti, ritengo che un divieto sia un nostro fallimento nel promuovere una sana conversazione”. Secondo te quindi c’è un limite sui social alla libertà di espressione? 

Il caso Trump è sicuramente il caso più estremo. Parliamo dell’uomo più potente del mondo che non accetta la sconfitta determinata dalla democrazia e via social media comincia a scrivere cose che sono ritenute “pericolose”. Tuttavia Trump, nel giorno dell’irruzione a Capitol Hill, aveva incitato la folla alla rivolta durante un comizio “fisico”, e nessuno si era permesso o aveva pensato di levargli la parola. Dai social invece si pretende un trattamento più netto. Penso che il vero problema sui social sia casomai il fatto che gli utenti vivano in “echo-chamber, in camere dell’eco dove purtroppo gli algoritmi cercano fonti in grado di avvalorare quello che già pensano. 

Si sta dando a un ente privato la responsabilità di decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato pubblicare. È una questione molto complessa. Stiamo correndo dei rischi?

Esatto: il tema è molto complesso. E la domanda corretta non è se, nel caso specifico di Trump, sia stata o meno una decisione legittima. Ma cosa faremo se domani, essendosi creato questo precedente, la stessa decisione potesse subirla qualcun altro, qualcuno che non è Trump. Davvero in questo momento non possiamo prevedere quello che succederà.

Si è aperto uno scontro tra il governo e il big player dei social media, è chiaro. Ma in tutto questo come reagiranno e cosa faranno le aziende?

Ci sono due strade. Le aziende potrebbero abbandonare Facebook. Nel luglio del 2020 ci fu ad esempio il “Facebook ads boycott”, a cui aderirono tutta una serie di brand, soprattutto statunitensi. Però non ebbe un grande effetto sulla piattaforma. Anche perché ovunque nel mondo c’è un vasto strato di Piccole e Medie Imprese per le quali Facebook è diventato uno strumento praticamente irrinunciabile. Da parte dei governi potrebbe però esserci un intervento di regolamentazione “più aggressiva” e coercitiva dei dati. Se le piattaforme (non solo Facebook ma anche Google, che ha un sistema di tracciamento altrettanto efficace) fossero improvvisamente obbligate a cambiare le loro policy e di conseguenza a restringere l’offerta di dati agli inserzionisti, a quel punto per le aziende cambierebbe moltissimo. Credo che a livello pubblicitario si potrebbe configurare un vero e proprio tentativo di restaurazione di quello che era l’ecosistema mediatico dell’advertising precedente ai social media. 

Facebook ha una posizione di sostanziale monopolio e inoltre può contare anche su Instagram e Whatsapp. E quindi la singola azienda che abbandona non può ottenere grandi risultati.

L’unico boicottaggio realmente pericoloso per Facebook sarebbe quello degli utenti. E per ora non c’è stato. Al momento, poi, a livello di social media non si vedono esperienze di intrattenimento paragonabili a quelle offerte complessivamente dall’ecosistema Facebook.

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