Secondo Wikipedia, gli Small Data sono dati sufficientemente “piccoli”, accessibili, informativi e fruibili per la comprensione umana. A livello più pratico, con tale concetto s’intende tutta una serie di dati “individuali e unici” – relativi ad abitudini e azioni che le persone, in modo più o meno consapevole, compiono nella loro vita quotidiana –, da mettere in relazione agli obiettivi strategici aziendali.
Abbiamo parlato a Digital Jam, il podcast di Chorally, con Alice Avallone, che ci ha spiegato, raccontato e narrato la storia di questi piccoli, piccolissimi e indispensabili dati, grazie al suo libro #Datastories, edito da Hoepli Editore.
Il primo a parlare di Small Data è stato Martin Lindstrom, scrittore danese esperto di marketing e brand, che, partendo dal presupposto che in tutto il mondo esistono non più di 500-1000 tipologie di persone diverse, ha teorizzato che il comportamento di ciascuno è influenzato da soli 4 fattori chiave:
Le scienze comportamentali, in questo momento di crisi, stanno avendo una nuova fortuna, riscontrando l’interesse di molti esperti di marketing soprattutto per quanto riguarda il Messy Middle e i bias cognitivi che determinano gli acquisti.
Con Alice Avallone, autrice del libro #Datastories e coordinatrice del College Digital Storytelling della Scuola Holden, dove insegna e fa ricerca in etnografia digitale, abbiamo approfondito le dinamiche comportamentali e le differenze tra generazioni.
Gli Small Data sono tutte le tracce umane che lasciamo in rete, da quando ci svegliamo la mattina fino a quando mettiamo la nostra testa dal cuscino. Iniziamo a controllare le notifiche, mettiamo i cuoricini su Instagram, cerchiamo il sogno che abbiamo fatto la notte, le informazioni sugli oggetti che vogliamo comprare online ecc. In sintesi, quindi, gli Small Data sono piccoli dati, minuscoli e quasi invisibili, che riusciamo a tracciare, non con gli algoritmi o con l’intelligenza artificiale come si fa, invece, con l’ingente mole dei Big Data, ma li andiamo a rintracciare tramite il nostro occhio umano. Fondamentalmente si tratta di andare a raccogliere queste impronte che noi lasciamo tramite smartphone e tastiera.
L’Etnografia Digitale non è nient’altro che un’analisi, un approccio, a questa osservazione che generalmente viene ricondotta sotto il grande ombrello dell’Antropologia Digitale: ovvero lo studio di noi esseri umani a contatto, da una parte, con la tecnologia – quindi con i nostri dispositivi che circondano ogni giorno – e dall’altro, invece, calati all’interno nelle reti sociali. Diciamo però che in Italia siamo parecchio indietro rispetto a questa materia e, in realtà, soprattutto nei paesi anglosassoni, è molto studiata anche a livello aziendale.
Concordo con te sul fatto che spesso continuiamo a leggere notizie che parlano dei millennials ma che di fatto si riferiscono alle nuove generazioni. È un errore, soprattutto se pensiamo alla differenza con la generazione Z, che differisce in modo incredibile perché è la prima vera generazione nativa digitalmente; mentre per noi, nati nell’Ottanta, c’è ancora una grandissima differenza tra quello che è la nostra esperienza on-line da quella off-line.
Man mano che, infatti, ci avviciniamo alle generazioni più giovani questi confini tendono a sparire fino ad arrivare, come nel caso della generazione Alpha, in un mondo in cui le distanze si accorciano portando territori differenti a diventare un tutt’uno tra quello che è la strada, il parco gioco e, magari, la community videogamer che si frequenta.
Noi millennials abbiamo vissuto quello che è tutt’ora la bolla dei social, spostandoci come popolazioni nomadi da Facebook a Instagram, per poi passare su altri canali. Una cosa curiosa che contraddistingue le generazioni è la modalità con cui si usano i social: i millennials sono la generazione delle piattaforme di blogging, mentre dalla generazione Z in poi si è tornati alla vocalità. Uno dei segnali più evidenti è il podcast, ma anche il nostro rapporto con gli assistenti virtuali in casa o i giocattoli dei bambini alfa che spingono a relazionarsi con la voce, fino ad arrivare a ClubHouse, che in qualche modo ha conquistato anche il nostro cuore dei millennials.
Prima di tutto la ricerca qualitativa degli Small Data non va a sostituire quella quantitativa. Si parte proprio dalle ricerche di mercato, le analisi, i sondaggi, i focus groups per iniziare a capire dove sono queste tracce umane: magari sono nascoste dietro delle ricorrenze di dati o in anomalie. Il compito del ricercatore di Small Data è quello di andare alla ricerca di dati piccolissimi che ci portano a restituire un significato e un contesto anche culturale, perché spesso i dati senza una lettura umana sono difficili da interpretare.
No, assolutamente. Gli Small Data si basano esclusivamente su tutte quelle tracce che vengono lasciate pubbliche, anche perché il ruolo del ricercatore è quello di vedere qual è la nostra rappresentazione online.
Diciamo che molto è cambiato in un anno. Durante la prima fase, al suono di “Andrà tutto bene”, la nostra rappresentazione online è stata improvvisamente ridimensionata. Non eravamo più animali sociali da aperitivo e da sfondi da ballo su instagram e ci siamo riscoperti letteralmente con le mani in pasta e magari maghi del riordino di casa. Nei successivi blocchi, la narrativa social è tornata un po’ quella di prima. Più che altro è cambiato come ci rapportiamo con i brand: vogliamo più autenticità e anche più profondità, anche dagli influencer. Non vogliamo conoscere solo il numero dell’ultimo rossetto pubblicizzato ma abbiamo bisogno di capire come questo ci potrà far sentire.
Possiamo dire che abbiamo imparato a rimodellare le nostre priorità.